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IN RICORDO DI MONS. JEAN ZOA/1
Abbiamo
avuto questo scambio con Mons. Jean Zoa nel suo ufficio; ci accolse con
amabilità mostrando ancora una volta lucidità e passione coinvolgente di fronte
ai problemi della Chiesa in Africa.
Quest'intervista
mette in risalto alcune linee essenziali del suo pensiero, che rimangono
attuali,
Mons.
Jean Zoa sfugge invece a queste etichette. Le sue posizioni teologiche e
pastorali erano radicate nell'esperienza ecclesiale e teologica del Concilio
Vaticano II, nelle sue fonti bibliche e patristiche; per questo i suoi
orientamenti conservano ancora tutta la loro attualità e pertinenza.
Grazie
al suo profetismo, al suo coraggio di andare contro corrente delle sensibilità
del tempo, le sue posizioni esprimono soprattutto una fedeltà creativa al Vangelo
e all'amore al suo popolo. Nonostante le numerose pubblicazioni sulla sua figura, la sua eredità merita ancora di essere riscoperta e valorizzata pienamente, soprattutto nel campo della pastorale.
Intervista rilasciataci da Mons Jean Zoa
* In un'intervista rilasciata nel 1993 alla CRTV alla televisione
camerunese, Lei affermò che il Concilio diede risposte di ampio respiro perché
i Vescovi di tutto il mondo giunsero a questo appuntamento con molte e
importanti domande. Alla vigilia della I Assemblea Speciale per l'Africa del
Sinodo dei Vescovi, quali sono le questioni fondamentali che i Vescovi africani
porranno sulla situazione generale, la teologia e la pastorale di questo
continente?
Il
Concilio Vaticano II si inserì, in effetti, in un momento di cambiamenti
epocali che interpellavano da ogni parte i cristiani.
Per
quanto riguarda l'Africa, soprattutto l'Africa nera, il Sinodo si situa dopo
trent'anni d'indipendenza che faceva seguito ad una lunga schiavitù e
colonizzazione, dopo le aspirazioni d'indipendenza politica e l'esperienza di
essa carica di equivoci e malintesi fra gli attori politici diretti e il
popolo, dopo l'inizio del pluripartitismo e le conseguenze che ne derivano per
la ricerca della
La
preparazione di noi tutti è in questo senso: il Sinodo non deve essere una
riunione, un'assise accademica. Noi ci sentiamo ad una veglia d'armi, alla
vigilia di una convocazione per cercare i mezzi di sopravvivenza di un
continente.
L'atteggiamento
fondamentale deve essere quello di testimoni, come sottolinea l'Instrumentum Laboris. Testimoni sul
modello di Gesù, come ci è presentato in due immagini del Vangelo: Gesù che
piange sulla sua nazione e sul tempio, simbolo di tutte le speranze del popolo,
e Gesù che, guardando il popolo, gente errante e stanca, che non si regge più
in piedi, esclama: "Ho pietà di questa folla". Tutti coloro che preparano
questo Sinodo devono essere attanagliati da questo grido di Gesù: Ho pietà dell'Africa
contemporanea: dove va?
È
questa l'atmosfera fondamentale di questo Sinodo. Se si attende altro da esso,
si rischia di rimanere delusi.
* Quale ritiene sia l'apporto al Sinodo africano della Chiesa
camerunese e in particolare dell'arcidiocesi di Yaoundé?
L'arcidiocesi
di Yaoundé si presenta al Sinodo africano dopo l'esperienza del Sinodo
diocesano concluso nel 1991, nel corso del quale sono stati individuati quattro
assi per un'evangelizzazione più profonda: la conoscenza di Gesù, l'impegno
missionario, lo sviluppo, l'assunzione, da parte dei fedeli, delle loro
responsabilità economiche nei confronti della Chiesa.
Leggendo
l'Instrumentum Laboris, ho cercato di
ritrovarvi questi quattro orientamenti fondamentali. Ho voluto utilizzarli come
chiave di lettura di un documento così vasto e che dovrà essere discusso in un
tempo limitato, per arrivare a definirne l'essenziale.
Resto
convinto della validità dei punti chiave proposti dal Sinodo diocesano. La centralità di Gesù deve essere
riscoperta e riaffermata con forza, privilegiando alcune categorie ed
eliminando quelle che creano delle ambiguità.
L'Africa
deve porsi domande fondamentali: il Dio unico nel quale crede l'Africa
tradizionale, come molti studi ci illustrano rallegrandosene, è il Dio di Gesù
Cristo, Dio personale che entra in relazione con l'uomo nella storia, che lo
interpella ad un impegno di trasformazione della realtà, che gli fa scoprire le
proprie responsabilità?
L'Africa
ha bisogno vitale di ricentrarsi sull'essenziale del messaggio, di ritrovare e assimilare
la
Sono
a tal riguardo alcune mie riserve sull'inculturazione: finora, infatti, i suoi
tentativi si sono limitati ad aspetti periferici della fede cristiana, a riti e
pratiche tradizionali, ignorando, invece, aspetti ineludibili. Ancora oggi, ad
esempio, in ewondo, la persona si
dice la personne (si lascia cioè il termine francese e non si traduce).
Quando si considera l'importanza della nozione di persona nel cristianesimo, si
capisce l'urgenza di trovare un linguaggio che possa parlare agli uomini di
oggi. E si potrebbero fare molti altri esempi. Il termine che traduce "peccato"
rimanda all'infrazione degli interdetti tradizionali e all'impurità e non alla rottura
di una relazione personale. Il lavoro di cui abbiamo bisogno è dunque quello di
un dialogo profondo con la cultura, come i Padri della Chiesa hanno fatto nei
primi secoli: un lavoro ricco di creatività, capace di dilatare la cultura per
farle accogliere il messaggio evangelico.
Come
non insistere, poi, sulla missione che
è una necessità, per la Chiesa in quanto tale, di testimoniare e condividere il
dono gratuito ricevuto? L'Africa deve integrare la dimensione missionaria anche
se è in gran parte una Chiesa catecumenale. Non bisogna aspettare di arrivare
ad un certo livello per pensare alla missione.
Vorrei
sottolineare che la città è una sfida e un'opportunità per la missione,
innanzitutto per la concentrazione demografica: le proiezioni statistiche ci
dicono che la popolazione urbana sta per raggiungere il 70% della popolazione
totale africana. Va elaborata perciò una pastorale missionaria specifica. La
città deve essere messa al centro delle strategie diocesane e delle
congregazioni religiose con una nota di ottimismo. La città, infatti, è vista
spesso come la Babilonia, ma nella Bibbia la città è anche la Gerusalemme
celeste. Si tratta perciò di rispondere alla sfida affascinante di
evangelizzare e umanizzare la città.
Il
terzo asse, quello dello sviluppo,
può includere molti elementi dell'Instrumentum
Laboris, gli stessi mass-media, per esempio.
Riguardo
al problema lacerante dello sviluppo, è necessario che l'Africa riscopra una
teologia e una spiritualità della creazione. Dal punto di vista cristiano,
bisogna evitare espressioni quali "recuperare il ritardo che l'Africa ha nei
confronti dell'Europa". Il punto di riferimento, il fondamento di un discorso
di sviluppo, non è l'Europa. È il progetto di Dio, rivelato nella Genesi. L'uomo
ha in se
È
triste sentire dire da intellettuali africani che la razionalità è una caratteristica
dell'Occidente: è invece semplicemente e specificamente umana. Si tratta allora
di svelare all'Africa ciò di cui già ora dispone, di sollecitarla al dovere
dell'ingegnosità creatriva.
Questi
dati basilari dovrebbero far parte integrante della catechesi, piuttosto che soffermarsi
in discussioni da specialisti. A partire da queste premesse si aprono grandi
questioni: la gestione del tempo, la sistemazione dello spazio, a cominciare
dall'habitat umano, la capacità di
organizzazione, a partire da quella del lavoro, per renderlo meno penoso e più
efficace, fino a quella della polis,
della politica.
Infine,
per quanto riguarda il quarto asse, è tempo che i cristiani, ovunque nel mondo,
e a partire dall'Africa, capiscano che la Chiesa ha bisogno d'infrastrutture
per avere la libertà di realizzare la propria missione. Le automobili hanno,
qui in Camerun, un prezzo sproporzionato ai salari medi, ma come può un prete
con una missione vasta quanto una provincia, lavorare senza un'automobile? Ecco
sorgere allora, insieme alla partecipazione
economica delle Chiese locali, il problema della cooperazione tra le
Chiese.
* Uno dei quattro temi proposti dall'Instrumentum Laboris per il Sinodo è quello dell'inculturazione,
tema sul quale la Chiesa africana riflette già da diversi anni. Lei, anche
recentemente, ha espresso la preoccupazione di un'eccessiva accentuazione del
problema dell'inculturazione che mette in ombra la necessità di una "metanoia",
di una conversione, termine che Lei privilegerebbe
perché "più biblico, più teologico e più impegnato". Può spiegarci meglio
questa sua preoccupazione?
Penso
che l'insistenza sull'inculturazione derivi da una certa confusione causata
dall'esperienza della prima evangelizzazione, che identificava i nuclei del
messaggio con espressioni invece culturalmente riformulabili, e dalle ferite e
dai traumi della schiavitù e del colonialismo.
Vorrei
che si conservasse la coscienza di questo problema, perché il rischio di
confiscare il messaggio, di limitarlo a determinati concetti e formulazioni,
minaccia tutti, anche noi africani, in quanto missionari verso altre culture. L'inculturazione
è un richiamo all'umiltà, a ricordare che il messaggio ci supera sempre e che l'altro
ha la libertà di riesprimerlo differentemente – come già sottolineavo al
Concilio – dopo averne accolto e assimilato la trasmissione.
Ciò
che voglio precisare, invece, è che dell'inculturazione non bisogna fare un
punto "in sé" della dottrina cristiana, erigerla a sistema, ma un elemento che
rimane relativo alle verità centrali della nostra fede. Se l'inculturazione
divenisse una nozione fondamentale della Rivelazione, non ci sarebbe più spazio
per il peccato e la conversione.
È
significativo che gli apostoli, pur praticandola, non abbiano fatto dell'inculturazione
un capitolo a
Non
relativizzare aspetti derivati, quali i riti, fa dimenticare, infatti, la
necessità di andare ai nuclei delle domande più profonde che l'uomo africano ci
pone e che vanno innestate, messe in contatto con la risposta divina. Alla grande profondità metafisica e mistica dei bisogni africani buona parte del clero risponde in maniera ridicola e offensiva per l'uomo africano, ritenendolo incapace di elevarsi al livello cui Dio l'ha posto. Avviene cioè che il popolo, giunto nell'atrio del tempio, ci chiede di accedere al Santo dei Santi e noi gli diciamo di starsene buono, montiamo delle scenette, lo divertiamo con delle parodie e poi lo rimandiamo via, senza rispondere al suo bisogno di Dio. Su questo dobbiamo interrogarci profondamente.
(A cura di Antonietta Cipollini)
[1] A Yaoundé, nel campus di Nkolbisson dell'Université Catholique d'Afrique Centrale, dal 24 al 25 aprile 2018, un Colloquio Internazionale di studio e di commemorazione ha riunito numerosi Vescovi e professori, insieme ad una folla di studenti e di fedeli di Yaoundé e di Mbalmayo, intorno alle grandi figure di Mons. Paul Etoga, primo Vescovo di Mbalmayo, e di Mons Jean Zoa, Arcivescovo di Yaoundé, scomparsi entrambi nel marzo 1998. [2] Riprendiamo leggermente aggiornata l'intervista che Mons. Jean Zoa ci accordò nel 1994, alla vigilia della I Assemblea Speciale per l'Africa del Sinodo dei Vescovi, per la nostra rivista missionaria italiana, cfr. A. Cipollini, Ho pietà di questa folla. Intervista a Mons. Jean Zoa alla vigilia del Sinodo Africano, in "Missione Redemptor hominis" n. 33 (1994) 2-3.
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